Fare attività culturali con soldi pubblici
Torna daccapo in mente la domanda: “Ma la cultura si deve fare con soldi pubblici?” Una risposta assoluta non l’abbiamo, ma viene utile al ragionamento il racconto di una paio di esperienze recenti vissute a Londra.
69£ e ti godi la musica che ti piace
Nel weekend del 14 e 15 luglio il Victoria Park Londra ha ospitato un piccolo festival, per le dimensioni della città. Per interessi diversi siamo stati a vedere come funzionava Lovebox (questo il nome), nato nel 2002 per mano dei Groove Armada e poi sviluppatosi fino ad oggi per come lo conosciamo. Un concentrato di artisti e brand che in due giorni richiamano pubblico da tutta Europa.
Come funziona Lovebox? È semplice: si paga un biglietto giornaliero di 69 sterline e si ha diritto a stare tutto il giorno a sentire musica e ballare, mangiare bere e stravaccarsi sul prato (chiaramente a pagamento). Mentre suonano gli artisti puoi frequentare piccoli padiglioni dei brand che ci hanno messo risorse per essere lì, da Corona a Diesel a tanti altri anche locali. In questi piccoli padiglioni ci suonano anche gli artisti e tutto sembra filare che è una meraviglia. Tralascio i temi dell’organizzazione che da alcuni mesi precedenti l’evento, ha visto continue informazioni sulle norme di sicurezza da adottare (visto il periodo), tutte rigorosamente via mail o con news periodiche sul sito peraltro aggiornato fino al momento prima di ogni concerto. E allora? Tutto questo a soli 69 pound! Un enorme quantità di pubblico, pagante e magnificamente armonioso e contento di essere lì anche solo per vedere il concerto serale più importante. Certo è Londra, una delle città più ricche d’Europa, ma che c’entra con l’abitudine a pagare per fruire di un evento?
Ogni biglietto una donazione
Stesso weekend andiamo a vedere la nuova ala della Tate Modern, il bellissimo nuovo Blavatnik Building progettata anche questo daHerzog & De Meuron. Ingresso alle collezioni pubbliche permanenti gratuito, bilancio di 151 milioni di sterline, quota di contributo pubblico del DCMS (Department of Culture Media and Sport) 28,7 milioni di pound, 6,6£ di donazioni e la restante parte generata da entrate proprie (biglietti, vendite degli shop, ecc) da 4,5 milioni di visitatori nel 2016.
Ma non sono questi i numeri, pure ragguardevoli, che fanno riflettere sulla capacità di una istituzione culturale di essere attrattiva. Mentre siamo in visita leggiamo che 2 delle 3 mostre temporanee a pagamento sono state finanziate da Uniqlo e Bloomberg. Alle biglietterie, infatti puoi scegliere oltre al costo di ingresso ordinario di 16,5£ anche il biglietto con donazione di 17,5£. E durante la visita nei diversi livelli delle collezioni e delle mostre permanenti, ogni hall ha un cubo di plexiglass in cui puoi fare una donazione. E ogni oggetto che puoi comprare genera una entrata che va a popolare le entrate proprie nel bilancio. Per effetto di quella donazione puoi anche avere accesso ai member lounge.
Sono due piccoli grandi esempi di come dietro i grandi numeri di due forti attrattori culturali ci sia una strategia di relazione con il privato e di come il ruolo dell’impresa sia di sostegno e non sostituisca la capacità di stare sul mercato. Ma sono principalmente due esempi di come si faccia riconoscere il valore della proposta; facendola pagare. Gli esperti di marketing sostengono che ciò che non paghi non ha valore. Nell’era della sharing economy qualcuno potrebbe eccepire che l’offerta culturale debba essere gratuita. Ma se andiamo su Airbnb, sappiate che parte della transazione che generate verso l’host che vi apre la sua casa, va ad un multinazionale che ha 1,7 miliardi di dollari di entrate.
Allora qual’è la questione che qui poniamo? Istituzioni culturali forti, generano progetti forti che hanno gambe e possono continuare a stare sul mercato dell’offerta culturale. Se nel nostro paese uscissimo dal paradigma della indispensabilità delle risorse pubbliche e del dopolavorista della cultura (un fenomeno che ha visto nascere moltissime associazioni culturali) forse potrebbero nascere più Tate Modern e meno agenzie pubbliche per la promozione culturale.
P.S.: in nessun sito delle organizzazioni nostrane qui citate c’è un bilancio o un report che fornisca indicatori paragonabili agli esempi inglesi citati.