Perchè le imprese dovrebbero investire in cultura?

Leggo dalle prime dichiarazioni del presidente della Fondazione Petruzzelli, che la quota di investimenti (no charity) dei privati nel progetto del “nuovo” Petruzzelli, deve aumentare ad oltre il 5%. A ciò si aggiunge nuovo marchio affidato con bando internazionale a giovani designer come cura per il rilancio. Bob Noorda, Massimo Vignelli, hanno disegnato fino alla vecchiaia e il bravo collega Geppi De Liso a cui si deve la migliore comunicazione del Petruzzelli a partire dal marchio da lui stesso disegnato nel 1979 e nel 2004, ci hanno dato cose di alto valore.

La domanda naturalmente sorge spontanea, direbbe un vecchio adagio. Per fare cosa dovrebbero mettere i soldi gli imprenditori? Il tempo del ricco scemo è finito e qui tralascio la questione dell’Art Bonus (il credito d’imposta per gli investimenti nei beni culturali che offre alle imprese il diritto di detrarre dalle imposte fino al 65% in tre anni) e sottolineo che non c’è impresa che non valuti il proprio investimento in attività di cosiddetto mecenatismo da almeno due punti di vista.

Il primo è un brutale ritorno di contatti generati dalla relazione con la marca da parte degli utenti (del teatro, del film, dell’evento culturale). Quanto pago ogni contatto? Quanto la mia marca riceve in termini di reputazione dal soggetto su cui ho investito? Quali metriche mi offre il soggetto per misurare il ritorno sull’investimento? Di minima, quali sono le attività di comunicazione del soggetto su cui sto investendo, che mi garantiscano notorietà, visibilità e creazione di valore? Badate bene, non è una questione di affetto o sentimento di attaccamento a qualcosa del territorio che chiede aiuto all’impresa (se no sarebbe charity, carità per dirla all’anglosassone, appunto). Il tempo delle sponsorizzazioni è finito da un pezzo, anche se ci sono più soldi che buone idee.

Il secondo punto di vista riguarda proprio le idee. Per cosa e con quale ruolo come impresa entro, e sottolineo entro perché il ragionamento impone questo verbo, in un ruolo da soggetto finanziatore. Da anni si va ormai affermando a livello internazionale e con qualche buon esempio anche su base nazionale, un ruolo di co-progettista da parte delle imprese che investono in progetti culturali. Parlo di progetto e non di soggetto da finanziare. Voglio qui affermare che l’impresa deve entrare nel processo di produzione culturale, apportando risorse ed esperienza, facendosi carico di un pezzo del processo del progetto. Cito a solo titolo di esempio l’esperienza dei Biscotti Di Leo per la candidatura di Matera. La marca Di Leo ha sostenuto con propri investimenti di comunicazione la candidatura e ne ha fatto oggetto di molte sue attività di marketing e comunicazione. Ma al contempo è entrata nel processo, co-progettando e co-realizzando attività nelle scuole insieme al comitato promotore. Si è quindi ritagliata un ruolo con l’apertura di un dialogo (gli esperti dicono con un design discourse) con il soggetto.

Enel in Italia con Santa Cecilia, Auditorium Parco della Musica e Teatro alla Scala con il progetto “Energiaper” (ad esempio la musica) e Unilever con la Tate Modern, solo per citare alcuni casi, valgono alcuni milioni di euro sul bilancio delle rispettive istituzioni culturali. Alla Tate c’è la “Unilever series” come ormai stabile collezione (aperta con il celebre sole di Olafur Eliasson) e Enel fra l’altro ha realizzato eventi formativi per i propri collaboratori sul tema della musica nelle organizzazioni.

Terzo punto di vista, lo aggiungo a margine, riguarda l’entità dell’investimento e la comunicazione a supporto. Fare una sponsorizzazione intesa in termini classici non basta perché come sanno gli uomini di marketing se la sponsorizzazione non la comunichi è come se non l’avessi fatta. Quindi per le imprese oltre al finanziamento c’è un ulteriore investimento che se non fosse fatto vanificherebbe l’azione di mecenatismo. La precondizione è che il beneficiario abbia voglia e modo di darti spazio per invitare i propri clienti agli spettacoli, per motivare i propri collaboratori e via dicendo.

Oggi i soggetti culturali che “sono a caccia” del sostegno delle imprese per i loro progetti devono compiere un salto e devono imparare a parlare di comarketing o di narrazione comune, ovvero deve accadere che quel pezzo di comunicazione necessario alla valorizzazione dell’investimento, sia svolto in ottica di valorizzazione delle partnership e per questo servono competenze, che ahimè almeno nella Fondazione Petruzzelli ad oggi non ho visto. Serve un bravo manager del marketing e della comunicazione che affianchi l’autorevole presidenza e la direzione artistica nella gestione della relazione con il partner privato. La mia associazione di categoria, mossa da uno spirito di affetto verso il teatro rinato ha offerto un contributo, non trascurabile, in contrasto con le finalità del club cultura nato in seno alla stessa associazione, che si batte da anni per l’abbandono delle sponsorizzazioni a favore della produzione di progetti culturali. Il risultato è stato che senza un referente le imprese non hanno ricevuto alcun ritorno sull’investimento e in taluni casi hanno ricevuto le scuse per contratti non onorati.

Quindi la sfida della nuova presidenza e del nuovo direttore del polo delle arti contemporanee è cambiare davvero modello e pratiche di relazione con i privati per passare da questuanti più o meno autorevoli ad attrattori e creatori di valore. Sono certo che questo valore darà un contributo ancora più elevato al raggiungimento degli obiettivi.